Da qualche settimana sono entrato a far parte di un nuovo social network, Quora, una sorta di yahoo anwers in formato piu’ intellettualoide. Nel senso che sono ci si puo’ imbattere in domande di un’idiozia capitale – come yahoo answers – (curiosità sterili dalle risposte scontate, quando non cazzate sesquipedali: perché Austria e Germania non sono una unica nazione? Perché la Francia non esce dalla NATO? Perché l’Italia non fa parte dell’Africa?) alle quali a volte degli utonti si sforzano di rispondere, dandosi pero’ un tono di gravi competenza ed erudizione. Detto per inciso, il social è stato lanciato da uno dei fondatori di facebook, comprensibilmente depresso dalla deriva involutiva della piu’ famosa delle piazze virtuali.
Come al solito, nei social network si incontra l’umanità piu’ varia, piu’ di tutti i millantatori, che ormai popolano del tutto impunemente le piazze virtuali. Una sedicente professoressa di storia ha per esempio continuato a rispondere, di fronte a dieci risposte contrarie, che no, Italia e Portogallo non sono nazioni simili perché non hanno mai avuto punti di contatto. Lo dice la storia! (?) Avoglia a spiegarle che non è cosí; sono diverse! E basta! Come possono portoghesi e italiani scrivere il contrario? Non lo concepisce proprio, avete sicuramente torto.
Il sito pero’ è utile per soddisfare la curiosità su quali siano i dubbi che piu’ fanno perdere il sonno agli utonti della rete. E soprattutto per deprimermi sempre di piu’ di fronte alle continue domande che vengono poste su nazioni, stati, patrie, autonomie, regioni e confini, testimoniando la persistenza di concetti che sono una zuppa passata, ripassata, trita e ritrita, piena zeppa di retorica obsoleta e quasi clownesca fatta di bandiere, insegne, simboli destinati ormai a scomparire irrimediabilmente sotto le spinte inarrestabili di immigrazione ed emigrazione che mischiano le etnie, come se i concetti stessi di confine, patria ed etnia non siano qualcosa di eternamente, e concettualmente se si vuole, mutevole, e qualunque idea che abbia sperato di conservarne i caratteri non abbia finito per soccombere sotto la scure del Tempo, che è una forza che neanche l’impeto dell’esercito piu’ invincibile o le idee rivoluzionarie piu’ temerarie di fratellanza universale (alle quali, solitamente, non riconosco neanche il merito della spinta ideale) riusciranno mai a scalfire. Sempre che non siano gli eserciti stessi e le spinte ideali a lottare, inspiegabilmente, donchisciottianamente, tragicamente e infruttuosamente e venire sempre battute dal Tempo, ostinandosi a perdere, partendo da sconfitti, contro l’evidenza stessa del reale.
Spinto dalle notizie catalane di questi tempi ho risfogliato (sul kindle, ovviamente) dopo tanti anni quel capolavoro senza tempo che è I soldati di Salamina di Javier Cercas, che rivela una grande verità: non è forse il concetto di patria la scusa ideale, od uno dei paraventi possibili, o soltanto un rozzo pretesto per giustificare ogni canagliata (citando sempre I soldati di Salamina)? Certo che lo è, tanto quanto lo è l’insulsa idea della perequazione economica ed atomizzante di tutti gli uomini che fanno parte della stessa comunità (il comunismo è ancora piu’ insulso, tanto per dirla in prosa)*. Quello che mi viene difficile spiegarmi è come sia possibile che oggi, dopo aver cercato di instillare per settant’anni con libri, istruzione, erasmus, pensiero liberale, l’idea di uguaglianza e collaborazione pacifica tra gli uomini per ottenere il benessere – non solo economico – comune, costruendo una entità sovranazionale bellissima chiamata Europa, esistano ancora spinte autonomiste e nazionaliste che cerchino di fermare un processo di mondializzazione, per nostra fortuna, pressoché ormai inevitabile ad ogni livello.
Figurarsi: credo che l’uomo che per primo recintò una caverna e disse “da questo giorno questo è mio” sia degno di ammirazione e riverenza per aver innescato la civilizzazione, e soprattutto aver concretizzato in modo esemplare il desiderio di sicurezza che nasce e cresce in ognuno di noi, e al quale tutti devono avere indistintamente diritto. Quel che non capisco è perché questo possesso debba essere sublimato dalla proprietà comune di una patria che per tradizioni, lingua, abitudini, pulsioni e destini non differisca per nulla dal reale nel quale vivono gli abitanti di Adelaide, Southern Australia o di Madison, Wisconsin. Per non dire Tokio o Shangai o Buenos Aires. Vivono diversamente giusto i nordcoreani, poveretti loro, e credo che, fortunatamente, non durerà poi cosí tanto la loro agonia. O gli arabi, che giustamente vengono in Europa a cercare di conquistare quegli standard che a noi sembrano così scontati da non farci neanche piu’ caso.
Inutili sovrastrutture, inutili pezze per giustificare centinaia di milioni di morti, per secoli di secoli. Giovani mandati al massacro la cui memoria scompare dopo solo qualche generazione.
Il mio povero bisnonno, orfano di nascita, ragazzo del 1899, spedito in veneto dalla provincia di Reggio Calabria a diciassette anni per difendere i confini di una patria neonata appena stuprata dal disastro di Caporetto, e mai sentiti nominare villaggi tanto lontani dal suo quanto la lingua che parlavano i loro abitanti e lui, chissà cosa avrebbe pensato di quei deficienti che in TV si riempiono la bocca di autonomia e di rediviva repubblica della serenissima, e per i quali i terroni o i negri sono soltanto una gran rottura di coglioni. La sua idea di patria, quella che lo spinse, o spinse chi spinse tanti ragazzi come lui a buttare nel cesso di una guerra la propria adolescenza, è finita nell’oblio, nello stesso oblio nel quale finiscono i soldati caduti per nazioni che oggi non sono piu’ nazioni, e che se lo sono finiranno per non esserlo piu’, tra dieci anni, tra cento o tra mille, per l’ingratitudine dei figli, per la caduta degli ideali, per l’inarrestabile scure del Tempo che travolge senza chiedere scusa qualsiasi pensiero di velleità d’eternità passi per l’edificazione di barriere e confini destinati ad annacquarsi e scomparire come neve al sole quando ci si accorge che a scambiare oggetti col vicino conviene molto di piu’ che prenderlo a pistolate.
Sogno un mondo governato da Google e da Amazon, alla faccia di governi, stati e staterelli che cercano di ostacolare l’evoluzione naturale che il mondialismo ci sta regalando, colossi tecnocratici che calpestino coi passi del gigante le idee dei pigmei che ancora stringono in mano drappi buoni giusto a spolverare i musei di guerre che hanno tempestato il nostro passato, evidentemente insegnando cosí poco agli uomini da giustificare l’intento nichilista di questo post che segna il mio ritorno.
*Massimo Zamboni, ex chitarrista dei CCCP (che, per chi non li conoscesse, è una band punk anni ’80 italiana che si rifaceva piu’ che apertamente agli ideali sovietici – il nome, del resto, è tutto un programma – che nella mia adolescenza ossessivamente anticomunista ho particolarmente amato senza particolari scrupoli di coscienza, anche perché il leader storico, Giovanni Lindo Ferretti, era tutto fuorché comunista; bastava ascoltare con attenzione i testi, ma si sa, di fronte all’appartenenza fideistica la razionalità ha poco da opporre), ha prodotto qualche giorno fa questo inqualificabile aggiornamento di stato:
L’indignazione di zamboni è veramente intollerabile e ridicola. Per decine di anni lui, e sopratutto il camerata Ferretti, hanno usato la rivoluzione bolscevica come show per avere soldi e notorietà!
O lo facevano per passione?
O lo facevano per cieca adesione ai dettami del marxismo piu’ ortodosso?
Piu’ che cittadino intelligente Zamboni è un grosso paraculo, lui e tutti quelli che hanno usato il comunismo per guadagnare alle spalle di giovani e meno giovani, che magari al comunismo credevano veramente. Io non ci ho mai creduto. Per fortuna.
Ed un’ultima precisazione: a me questo post è venuto fuori perché sulla timeline di facebook mi è uscito “Massimo Zamboni: pagina pubblicizzata”. Ah, l’anima candida Zamboni!
“Se c’è una cosa per cui odio i comunisti, eccellenza” disse una volta Foxá a Franco, “è perché mi hanno costretto a diventare falangista” (I soldati di Salamina).