Non so di preciso quando, o quanto, Borges e piu’ tardi Bolaño abbiano influenzato la (de)costruzione del mio pensiero. Gli uni sono causa dell’altro? La mia ossessiva rincorsa alla dematerializzazione del concreto si conclude da dove è iniziata (cioè quando in età prepuberale fui capace di trasformare un castello dei Playmobil – link per chi stesse pensando a cosa regalarmi a Natale – in uno stadio di calcio) o tende necessariamente (e virtuosamente, s’intenda) ad arricciarsi su sé stessa. Senza punti interrogativi. Come la biblioteca infinita di Babele, senza leggi fisiche che ne determinino un ordine causale.
La tendenza alla destrutturazione (cosí usiamo il terzo sostantivo possibile) è il tema che accompagna anche i miei ascolti da tempo immemore. E siccome l’autunno influenza (o intorpidisce) le passioni di tutti -persino degli automobilisti romani d’improvviso malinconicamente rassegnati – ed è in sé la stagione piu’ eterea ed evanescente, un pensiero destrutturato in forma metereologica, insomma, cullarsi nell’ascolto dei Cocteau Twins è la pulsione piu’ edonistica che possa passarmi per la mente.
Viaggi onirici in paesaggi surreali, in giardini esotici e lisergici. Musica dall’aria medievale e al contempo futuribile e futuristica; un viaggio psichedelico d’impressione ipnotica impossibile da ridurre a descrizione didascalica. Visto e considerato, peraltro, che è difficile convincere qualcuno ad assaggiare qualcosa soltanto descrivendone il sapore (stratosferica banalità d’impatto colossale prosaicamente ripresa da qui), l’unica certezza che posso darvi è che senza l’immaterialità degli arpeggi intrecciati di Robin Guthrie sulle vette armoniche dei vocalizzi di Elizabeth Fraser non esiste destrutturazione dei concetti degna di questo nome.